IDENTITÀ
E QUARTIERI
di Maurizio Naldini
Nacquero, i borghi, fin
dall'anno Mille, appena fuori le mura fiorentine
per ospitare la forza lavoro. E, da bidonville invase dai liquami, si trasformarono in cittadelle dei
commerci, videro fiorire l'artigianato, ospitarono i servizi che dovevano
rendere grande il centro storico, così come era accaduto ben prima intorno ai
castelli del contado. Seguì invece un suo percorso autonomo l'Oltramo, che
ospitò inizialmente i greci e i siriani, gli immigrati dal Nord Africa, i
cristiani ai quali non era concesso di entrare nella città pagana. Il fiume,
l'Arno, segnava un confine che andava ben al di là di quello indicato dalle
mura. E quel confine sarebbe rimasto saldo per almeno un millennio, tanto che
vivere in Oltrarno dava diritto a una precisa identità: fiorentini, forse più
degli altri, ma diversi.
Assurda
questa diversità? Eppure era reale, e per molti aspetti lo è ancora oggi.
Quando a fine Ottocento fu abbattuto il ghetto, e molte torri e chiese medievali,
strade e piazzette del centro storico lasciarono posto alla piazza della
Repubblica, chi abitava il quartiere malfamato ebbe qualche mese di tempo per
trovarsi una nuova abitazione, potendo contare su un modesto sussidio comunale
che doveva aiutare a pagarsi l'affitto. Ci riuscirono in pochi, gli altri si
trovarono a vivere di pubblica carità, che si manifestò nella costruzione di
case per gli indigenti, o in modestissimi loculi attrezzati in tutta fretta
verso via dell'Orto, là dove era da sempre una discarica. Ebbene, negli anni
che seguirono, gli antichi abitanti del ghetto presero l'abitudine, terminato
il lavoro, poco dopo il tramonto, assieme alle mogli e schiere di rampolli, di
attraversare il fiume, e in una sorta di pellegrinaggio tornare a far visita
ai luoghi dove erano nati.
Legittimo,
lodevole anzi, umanissimo desiderio? Non c'è dubbio. Eppure quei cenciosi che
ogni sera entravano nei quartieri del potere disturbavano
la borghesia che li abitava. E si arrivò al punto - ci dicono le cronache de
«La Nazione» di allora - di piazzare i soldati sui ponti, perché vietassero con
la forza l'ingresso al centro storico a chi abitava in Oltrarno. E ancora
nell'ultimo dopoguerra, quando don Cubattoli raccoglieva i ragazzi di San
Frediano insegnando loro a essere uomini ancor prima che veri cristiani,
"andare in centro" significava affrontare un viaggio, e le madri
facevano il bagno ai loro figli, e li vestivano con particolare cura, quando
ciò avveniva.
L'identità
dell'Oltrarno, che col passare degli anni fu modificata, prima dal disastro
dell'alluvione e la diaspora per piccoli commerci e artigianato, poi
dall'arrivo sempre più numeroso di stranieri, fino all'oggi che ci dà speranza
di farne un "quartiere latino", è fuori discussione. Chi ci è nato,
o ci vive, rivendica la sua peculiarità. Senza più alcun complesso, anzi, con
orgoglio. Pur essendosi ampliato il concetto stesso di quartiere. Allargandosi
prima al Pignone - che accolse le prime timide industrie per il porto fluviale
da cui prende il nome - poi a Monticelli, che inizialmente ospitava solo orti,
Soffiano fino alle porte di Scandicci, e, dal lato opposto, il quartiere di
Gavinana, sicuramente borghese, e quello del viale Europa, addirittura
elitario. Ma se l'Oltrarno è sicuro di sé, delle proprie origini e della
propria essenza, quanti altri quartieri possono vantare uguale identità scandita
attraverso i secoli? Ce n'è un altro, che pur nato solo nel Novecento, oggi è
sicuramente consapevole del suo passato e del suo presente. È il Campo di Marte, le cui origini
si collegano a quelle della stazione ferroviaria, e che oggi si allarga fino a
Coverciano, alle Cure da un lato e San Salvi dall'altro. E un quartiere
privilegiato, nato, si direbbe, per stupire. E infatti, man mano che l'esercito
che qui si esercitava nel ben noto "diamante", per precisa
indicazione del Poggi, un p0' alla volta lasciò spazi per manifestazioni
pubbliche e abitazioni private, qui si concentrarono non solo ottime villette
stile liberty, ma anche servizi sportivi, giochi, circhi, lasciando ampie aree
di verde che oggi ne fanno il quartiere più ricco di giardini. Il Campo di
Marte ospitò infatti le prime manifestazioni aeree a inizio Novecento, vide
innalzarsi le prime mongolfiere, assistette alle evoluzioni di Buffalo Bili e
del suo circo, fino alla costruzione dello stadio per il calcio, di quello per
il rugby, le piscine, i campi da tennis, il baseball, la pista di atletica, il
palazzetto dello sport per il basket e la pallavolo, i concerti, ancora oggi i
circhi, mercati e mercatini di richiamo, e manifestazioni di ogni tipo al
Mandela Forum. Insomma, tutto quello che può dare gioia e stupore appunto, così
che il Campo di Marte è un quartiere a sé stante, con una precisa identità, che
consiste non nel chiudersi agli altri, ma, al contrario, nel saper
ospitare pressoché ogni giorno migliaia di visitatori e di utenti.
Il
Campo di Marte è dunque un'area privilegiata, che in cambio chiede ai suoi
abitanti di saper accogliere. Chiede e ottiene, se si pensa che pochi anni fa,
per i mondiali di ciclismo, gli abitanti hanno accettato senza fiatare, e
quasi con orgoglio, di restare bloccati per una settimana da transenne e
atleti. Ed è anche un quartiere ben fornito di negozi, alcuni raffinatissimi,
con una viabilità migliore di tante altre, anche se negli ultimi anni è
peggiorata. Sicuramente un quartiere di élite, forse il migliore in Firenze,
che permette di arrivare a piedi in piazza Duomo in neppure mezz'ora o di
salire a Fiesole, e da qui sciamare per impareggiabili colline, senza neppure
la noia di doversi fermare a un semaforo. E, dunque, al di là della ferrovia è
un mondo sospeso tra Fiesole e Firenze, da dove non si sente granché l'urgenza
di spostarsi altrove. Volendo, al Campo di Marte si trova di tutto, quello che
c'è altrove e quello che altrove si sognano. E il casello Sud dell'Autostrada
lo collega facilmente al resto del mondo.Oltrarno, Campo di Marte,
e poi? A ricordare cosa prevedeva il Poggi, con il suo piano regolatore che
sanciva l'aprirsi della città verso occidente, viene da sorridere.
E infatti,
è stata proprio l'attuazione di questo dogmatico principio che è
clamorosamente fallita. Via via che Firenze si è estesa lungo il corso
dell'Arno, non solo non si è saputo costruire, ma addirittura si è inglobato,
annullato o addirittura ridicolizzato la presenza in zona di piccole realtà
colme di storia, villaggi contadini con le loro pievi, le ultime coloniche, il
verde che le circondava.
Rifredi
fu chiamata a ospitare, fin dal Trecento, i fabbricanti di candele, perché col
lezzo della lavorazione non disturbassero gli abitanti del centro. E dunque non
ebbe vita facile, fin da allora. Ma la zona Statuto, con splendidi palazzi
ottocenteschi, fino agli anni Ottanta era un luogo ambito, per la vicinanza al
centro, la Fortezza e i relativi giardini. Si è riusciti, negli ultimi
trent'anni, a distruggerne la specificità, l'identità appunto, e oggi con la
tranvia è difficile dire se il futuro potrà essere meglio del presente,
presente disastroso non c'è dubbio. La città a occidente soffre dunque di
scelte a dir poco avventate, che furono di tante amministrazioni di sinistra.
Dell'accavallarsi di ambiziosi progetti ma senza una armonica visione
dell'insieme, se non quella di costruire tutto nella stessa zona.
Qui, ormai,
parlare di identità è ridicolo. Qual è l'identità di via Baracca o via di
Novoli? Raccordi autostradali? Strade di scorrimento dove 1e code sono la
normalità? Eppure, io credo, è ancora possibile dar loro un modo ragionevole di esistere. Farne la città
modernissima, dove il cemento non rinuncia alle sue capacità estetiche, e
l'innalzarsi dei palazzi diventa una griffe, così come si è cercato di fare -
pur fra mille contrasti - con il Palazzo di Giustizia. Si può e si deve. Pur
nel rimpianto di aver distrutto i resti di una civiltà contadina che proprio in
quelle zone dava il meglio di sé, aprendosi con naturalezza fino alle Cascine,
lo sfogo naturale, fattoria medicea non a caso.Il futuro di Firenze si
gioca per l'appunto in questa sfida. La città degli anni a venire non potrà che
nascere nelle sue periferie, recuperando spazi lasciati vuoti per incuria,
abbattendo per ricostruire quando è necessario, migliorando i servizi e la
circolazione. Ecco, tutto questo finalmente sembra essere chiaro. Ai cittadini,
raccolti sempre più spesso in comitati e gruppi di recupero per specifici
luoghi e temi, ma anche alla stampa cittadina, e proprio in questa direzione
sembra muoversi la sensibilità dei giornalisti più avveduti.E infatti, cos'altro può
dare a Firenze questo terzo millennio? Il presente deve lasciare la sua
impronta, e può farlo proprio riconducendo a una visione armonica, a un
progetto unitario il tanto, il troppo forse, che sta bollendo in pentola. Ma
senza dimenticare, se possibile, quanto scriveva a metà Seicento un rampollo
della famiglia Capponi. «Se vuoi meritare la stima di chi verrà dopo di te, se
vuoi che gli eredi abbiano gratitudine per le tue opere, dedica alla bellezza
un terzo dei tuoi guadagni. Ti sembrerà uno spreco, e sarà invece la migliore
spesa.»