mercoledì 6 settembre 2017


 

                                                  FIRENZE GLOBALE :

   ANNO DEL SIGNORE 2030….UN BEL DI’VEDREMO

Pur manifestando il pieno consenso nei confronti del convegno sull'area metropolitana, dal titolo Firenze globalizzata. Nuovo Rinascimento 2030, tenuto in Palazzo Medici Riccardi nel marzo scorso, dobbiamo ammettere che la nostra (italiana) esperienza di governo delle aree metropolitane non è di sperimentazione, ma di studi fatti a tavolino, o di incontri tenuti molti anni fa. Il convegno di Palazzo Medici Riccardi ha destato grande interesse sia per le relazioni presentate sia per la presenza di studiosi e di urbanisti di ottimo livello. Come ex assessore all'Urbanistica, con i sindaci Bonsanti e Lando Conti, ho avuto modo di partecipare a Milano e Napoli ad altri convegni sullo stesso tema e, pertanto, sono ancora in possesso di una buona infari­natura. Inoltre la conoscenza del comprensorio fiorentino, osservato e valutato per oltre quaranta anni, mi consente, con un pizzico di pre­sunzione, di mettere i1 "beccJ in questo programma di pianificazione territoriale. Credo che dovremmo porre, alla base delle nostre valuta­zioni economiche, anagrafiche e politiche, le implicazioni che derivano dalla conoscenza diretta del territorio, per trarre le giuste indicazioni, in ordine sopra tutto al ruolo e alle funzioni che assumerà Palazzo Vec­chio in materia di gestione della dimensione metropolitana del terri­torio, per i problemi che riguardano i Comuni contermini, cioè a ri­dosso della città di Firenze: Scandicci e Sesto Fiorentino. Bisogna co­gliere, in queste aree confinanti, tutti gli elementi di trasformazione

registrati dagli anni Sessanta in poi; mi riferisco per esempio alle infra­strutture da realizzare, che possono rappresentare una profonda esi­genza, sentita dai Comuni della conurbazione, di superare antichi e gravi disagi dovuti all'aumento della popolazione e, dunque, anche dai lavoratori pendolari. Oggi, con le aree metropolitane, siamo veramente all'anticamera di un riordino istituzionale significativo. Secondo me,

aspetto saliente che emerge è che il comprensorio di Firenze è stato interessato e, purtroppo, è tuttora minacciato da un processo di dequalificazione della periferia, a confine con i Comuni contermini, soprattutto a nord-ovest del capoluogo, che sconvolge la fisionomia economico-sociale dell'ambiente. Oggi, la necessità di una organiz­zazione sul territorio di interventi di risanamento ambientale è quan­to mai evidente e urgente. Rimandare al progetto previsto per il 2030 sarebbe inaccettabile: il problema delle periferie si deve concentrare sulle competenze istituzionali già esistenti, che devono consentire in­terventi a breve termine, considerata anche la notevole presenza di migranti, sistemati alla meno peggio. Dunque, per passare da una si­tuazione di agglomerazione disordinata a una situazione di area me­tropolitana c'è bisogno di interventi fondamentali: alcuni di natura fisico-economico-strutturale; altri di riordino delle strutture pubbli­che. E poi, un aspetto molto problematico è la congestione del centro storico fiorentino per i gravissimi effetti del turismo cosiddetto "di massa". Occorre pensare a delle alternative nei percorsi e nelle mete turistiche di grandissimo valore nazionale e internazionale, per evitare le condizioni di congestione e di degrado nei luoghi più fragili della città antica. Tuttavia non sarà facile trovare soluzioni per diversificare le correnti di utilizzazione, quali, per esempio, la gestione del tempo libero, l'escursionismo dal turismo residenziale ecc. Un altro proble­ma, al di là di quello annoso delle infrastrutture e dei parcheggi, sia per i residenti che per i pendolari (parcheggi scambiatori), è la im­pellente necessità del "riuso urbano" di aree degradate o comunque mal utilizzate all'interno dei Comuni, soprattutto alla periferia di Fi­renze. Chiusa per sempre la cultura dell'espansione urbana, è neces­saria quella della trasformazione delle città e delle zone limitrofe. E indispensabile che si proceda alla riqualificazione delle aree industriali dismesse, in particolare della Piana e dell'Osmannoro. Insomma, ri­cucire il tessuto urbano mediante l'allocazione di attività produttive integrate (non inquinanti l'ambiente, cioè per uso terziario avanzato o aree di uso pubblico con attrezzature di servizio , culturali , sportive o spazi verdi )

D’altronde , per fortuna , dopo frane e alluvioni , in questi ultimi anni in Italia si vanno consolidando ipotesi positive sul rapporto tra ambiente e i suoi processi di trasformazione poiché , finalmente , si comprende che proprio l’ambiente e la qualità della vita non sono elementi da poco per la crescita della comunità , grazie al buon uso del territorio .

La terra dei fuochi in Campania è invece un tragico esempio dell’uso improprio e pregiudicato del territorio .Insomma , dove vuole andare Firenze ? Le questioni cruciali , da tempo evidenziate , sono quelle di sempre : traffico , inquinamento , degrado, assenza di parcheggi , condizioni delle periferie .

A ciò va sempre ricordata l’identità culturale della citta: la cultura come risorsa da salvaguardare .Dopodichè, stadio, Mercafir e…. purtroppo pizze , trattorie, dehor e bancarelle in attesa del 2030. Un bel dì vedremo…..

GIANNI CONTI
articolo tratto dall'ultimo numero della  rivista mensile IL GOVERNO DELLE IDEE
 
 

 

           

 

                

     

 

 

 

 

 

 

venerdì 14 luglio 2017


IDENTITÀ E QUARTIERI

di Maurizio Naldini

Nacquero, i borghi, fin dall'anno Mille, appena fuori le mura fiorentine per ospitare la forza lavoro. E, da bidonville invase dai liquami, si trasformarono in cittadelle dei commerci, vi­dero fiorire l'artigianato, ospitarono i servizi che dovevano rendere grande il centro storico, così come era accaduto ben prima intorno ai castelli del contado. Seguì invece un suo percorso autonomo l'Ol­tramo, che ospitò inizialmente i greci e i siriani, gli immigrati dal Nord Africa, i cristiani ai quali non era concesso di entrare nella città pagana. Il fiume, l'Arno, segnava un confine che andava ben al di là di quello indicato dalle mura. E quel confine sarebbe rimasto saldo per almeno un millennio, tanto che vivere in Oltrarno dava diritto a una precisa identità: fiorentini, forse più degli altri, ma diversi.
Assurda questa diversità? Eppure era reale, e per molti aspetti lo è an­cora oggi. Quando a fine Ottocento fu abbattuto il ghetto, e molte torri e chiese medievali, strade e piazzette del centro storico lasciarono posto alla piazza della Repubblica, chi abitava il quartiere malfamato ebbe qualche mese di tempo per trovarsi una nuova abitazione, po­tendo contare su un modesto sussidio comunale che doveva aiutare a pagarsi l'affitto. Ci riuscirono in pochi, gli altri si trovarono a vivere di pubblica carità, che si manifestò nella costruzione di case per gli indigenti, o in modestissimi loculi attrezzati in tutta fretta verso via dell'Orto, là dove era da sempre una discarica. Ebbene, negli anni che seguirono, gli antichi abitanti del ghetto presero l'abitudine, termi­nato il lavoro, poco dopo il tramonto, assieme alle mogli e schiere di rampolli, di attraversare il fiume, e in una sorta di pellegrinaggio tor­nare a far visita ai luoghi dove erano nati.
Legittimo, lodevole anzi, umanissimo desiderio? Non c'è dubbio. Ep­pure quei cenciosi che ogni sera entravano nei quartieri del potere disturbavano la borghesia che li abitava. E si arrivò al punto - ci di­cono le cronache de «La Nazione» di allora - di piazzare i soldati sui ponti, perché vietassero con la forza l'ingresso al centro storico a chi abitava in Oltrarno. E ancora nell'ultimo dopoguerra, quando don Cubattoli raccoglieva i ragazzi di San Frediano insegnando loro a es­sere uomini ancor prima che veri cristiani, "andare in centro" signi­ficava affrontare un viaggio, e le madri facevano il bagno ai loro figli, e li vestivano con particolare cura, quando ciò avveniva.
L'identità dell'Oltrarno, che col passare degli anni fu modificata, pri­ma dal disastro dell'alluvione e la diaspora per piccoli commerci e ar­tigianato, poi dall'arrivo sempre più numeroso di stranieri, fino al­l'oggi che ci dà speranza di farne un "quartiere latino", è fuori discus­sione. Chi ci è nato, o ci vive, rivendica la sua peculiarità. Senza più alcun complesso, anzi, con orgoglio. Pur essendosi ampliato il con­cetto stesso di quartiere. Allargandosi prima al Pignone - che accolse le prime timide industrie per il porto fluviale da cui prende il nome - poi a Monticelli, che inizialmente ospitava solo orti, Soffiano fino alle porte di Scandicci, e, dal lato opposto, il quartiere di Gavinana, sicuramente borghese, e quello del viale Europa, addirittura elitario. Ma se l'Oltrarno è sicuro di sé, delle proprie origini e della propria essenza, quanti altri quartieri possono vantare uguale identità scan­dita attraverso i secoli? Ce n'è un altro, che pur nato solo nel Nove­cento, oggi è sicuramente consapevole del suo passato e del suo pre­sente. È il Campo di Marte, le cui origini si collegano a quelle della stazione ferroviaria, e che oggi si allarga fino a Coverciano, alle Cure da un lato e San Salvi dall'altro. E un quartiere privilegiato, nato, si direbbe, per stupire. E infatti, man mano che l'esercito che qui si eser­citava nel ben noto "diamante", per precisa indicazione del Poggi, un p0' alla volta lasciò spazi per manifestazioni pubbliche e abitazioni private, qui si concentrarono non solo ottime villette stile liberty, ma anche servizi sportivi, giochi, circhi, lasciando ampie aree di verde che oggi ne fanno il quartiere più ricco di giardini. Il Campo di Marte ospitò infatti le prime manifestazioni aeree a inizio Novecento, vide innalzarsi le prime mongolfiere, assistette alle evoluzioni di Buffalo Bili e del suo circo, fino alla costruzione dello stadio per il calcio, di quello per il rugby, le piscine, i campi da tennis, il baseball, la pista di atletica, il palazzetto dello sport per il basket e la pallavolo, i con­certi, ancora oggi i circhi, mercati e mercatini di richiamo, e manife­stazioni di ogni tipo al Mandela Forum. Insomma, tutto quello che può dare gioia e stupore appunto, così che il Campo di Marte è un quartiere a sé stante, con una precisa identità, che consiste non nel chiudersi agli altri, ma, al contrario, nel saper ospitare pressoché ogni giorno migliaia di visitatori e di utenti.

Il Campo di Marte è dunque un'area privilegiata, che in cambio chie­de ai suoi abitanti di saper accogliere. Chiede e ottiene, se si pensa che pochi anni fa, per i mondiali di ciclismo, gli abitanti hanno ac­cettato senza fiatare, e quasi con orgoglio, di restare bloccati per una settimana da transenne e atleti. Ed è anche un quartiere ben fornito di negozi, alcuni raffinatissimi, con una viabilità migliore di tante al­tre, anche se negli ultimi anni è peggiorata. Sicuramente un quartiere di élite, forse il migliore in Firenze, che permette di arrivare a piedi in piazza Duomo in neppure mezz'ora o di salire a Fiesole, e da qui sciamare per impareggiabili colline, senza neppure la noia di doversi fermare a un semaforo. E, dunque, al di là della ferrovia è un mondo sospeso tra Fiesole e Firenze, da dove non si sente granché l'urgenza di spostarsi altrove. Volendo, al Campo di Marte si trova di tutto, quello che c'è altrove e quello che altrove si sognano. E il casello Sud dell'Autostrada lo collega facilmente al resto del mondo.Oltrarno, Campo di Marte, e poi? A ricordare cosa prevedeva il Poggi, con il suo piano regolatore che sanciva l'aprirsi della città verso occi­dente, viene da sorridere.
 E infatti, è stata proprio l'attuazione di que­sto dogmatico principio che è clamorosamente fallita. Via via che Fi­renze si è estesa lungo il corso dell'Arno, non solo non si è saputo co­struire, ma addirittura si è inglobato, annullato o addirittura ridicolizzato la presenza in zona di piccole realtà colme di storia, vil­laggi contadini con le loro pievi, le ultime coloniche, il verde che le circondava.
Rifredi fu chiamata a ospitare, fin dal Trecento, i fabbricanti di can­dele, perché col lezzo della lavorazione non disturbassero gli abitanti del centro. E dunque non ebbe vita facile, fin da allora. Ma la zona Statuto, con splendidi palazzi ottocenteschi, fino agli anni Ottanta era un luogo ambito, per la vicinanza al centro, la Fortezza e i relativi giardini. Si è riusciti, negli ultimi trent'anni, a distruggerne la speci­ficità, l'identità appunto, e oggi con la tranvia è difficile dire se il futuro potrà essere meglio del presente, presente disastroso non c'è dubbio. La città a occidente soffre dunque di scelte a dir poco avventate, che furono di tante amministrazioni di sinistra. Dell'accavallarsi di ambi­ziosi progetti ma senza una armonica visione dell'insieme, se non quella di costruire tutto nella stessa zona.
Qui, ormai, parlare di iden­tità è ridicolo. Qual è l'identità di via Baracca o via di Novoli? Raccordi autostradali? Strade di scorrimento dove 1e code sono la normalità? Eppure, io credo, è ancora possibile dar loro un modo ragionevole di esistere. Farne la città modernissima, dove il cemento non rinuncia alle sue capacità estetiche, e l'innalzarsi dei palazzi diventa una griffe, così come si è cercato di fare - pur fra mille contrasti - con il Palazzo di Giustizia. Si può e si deve. Pur nel rimpianto di aver distrutto i resti di una civiltà contadina che proprio in quelle zone dava il meglio di sé, aprendosi con naturalezza fino alle Cascine, lo sfogo naturale, fat­toria medicea non a caso.Il futuro di Firenze si gioca per l'appunto in questa sfida. La città degli anni a venire non potrà che nascere nelle sue periferie, recuperando spazi lasciati vuoti per incuria, abbattendo per ricostruire quando è necessario, migliorando i servizi e la circolazione. Ecco, tutto questo finalmente sembra essere chiaro. Ai cittadini, raccolti sempre più spesso in comitati e gruppi di recupero per specifici luoghi e temi, ma anche alla stampa cittadina, e proprio in questa direzione sembra muoversi la sensibilità dei giornalisti più avveduti.E infatti, cos'altro può dare a Firenze questo terzo millennio? Il pre­sente deve lasciare la sua impronta, e può farlo proprio riconducendo a una visione armonica, a un progetto unitario il tanto, il troppo forse, che sta bollendo in pentola. Ma senza dimenticare, se possibile, quanto scriveva a metà Seicento un rampollo della famiglia Capponi. «Se vuoi meritare la stima di chi verrà dopo di te, se vuoi che gli eredi abbiano gratitudine per le tue opere, dedica alla bellezza un terzo dei tuoi gua­dagni. Ti sembrerà uno spreco, e sarà invece la migliore spesa.»


 
articolo pubblicato nella rivista IL GOVERNO DELLE IDEE  numero speciale  ed Meridiana luglio 2017