Quella spruzzatina di patina neoparlamentare sbrigativamente e graziosamente concessa al professor Mario Monti per consentirgli di dar vita a un governo di ottimati somiglia tanto alle procedure adottate da Carlo Alberto, riluttante ad abbandonare l'assolutismo, a concedere nel 1848 - buon terzo dopo il re delle Due Sicilie e Pio ix - uno statuto octroye, un tantino abborracciato in pochi giorni pour épater le bourgeois per dare un contentino a banchieri e industriali coi quali il regno piemontese era fortemente indebitato.
Tutti felici, tutti contenti, porgenti inchini e riverenze verso l'invenzione che il monarca repubblicano ha consegnato a un forbito Monti perché ne ricavasse il più largo consenso delle camere dell'era postfascista?
Francamente qualche dubbio ci insorge. Se non altro perché la stampa straniera, ultimamente da molti evocata come la castigatrice degli ultimi governi show, ci chiede dove sia finita la nostra democrazia e, conseguentemente, la nostra politica di cui menavamo vanto in Europa. I tecnici dovevano provvedere a sedare i mercati e a frenare le speculazioni finanziarie. Appena si è sollevata qualche timida voce a rammentare che la democrazia è in qualche modo garantita dalla politica, non dai banchieri che fanno soldi con l'aiuto dello Stato, la si è messa a tacere neppure si trattasse di nostalgici del recente passato non propriamente glorioso, o di malati di formalismo, ovvero di disturbatori dei nuovi manovratori, tanto eccellenti persone singolarmente prese, quanto sprovveduti parvenues politici collettivamente valutati. Diciamolo umilmente: l'Italia politica e la non robusta democrazia del Belpaese sono state commissariate: disperse, brutalmente esposte a una involuzione che mette in discussione sia la costituzione formale che quella materiale di questo sciagurato paese di dissipatori di contenuti e forme di democrazia. Viene da chiedersi dove siano finiti i custodi inflessibili della carta del 1948 giudicata immodificabile; e dove si siano rintanati i giureconsulti del costituzionalismo creativo che s'impantanano nel subire gioiosamente e dilettantisticamente il concetto di popolo sovrano.
Ai primi di agosto 2011 il professor Monti deliziosamente rammentò la figura del "podestà forestiero", tecnico professionale delle gestioni di potere nell'età comunale. Col senno di poi si potrebbe asserire che già allora, con lucida premonizione, l'ex rettore aveva avanzato la propria nomina a capo del governo di un'Italia parlamentare divisa dalle risse bottegaie; ma quasi nessuno colse allora il significato recondito di quella anticipazione accademicamente stimolante, politicamente imprevedibile e discutibile.
E ora che si fa? Allestiamo un mutamento di sistema come se si trattasse di una replica paludata alle barzellette del gaudente Berlusconi? Noi siamo dei moderati, delle persone tranquille, né animose, né recalcitranti verso ciò che non ci convince. Ma invochiamo il diritto al dubbio; e, con ciò, pensiamo di trovarci in buona compagnia di buona parte degli italiani: compresi parecchi di quei senatori e deputati che, in quarantott'ore, hanno ascoltato dichiarazioni di intenzioni non propriamente chiare, interventi millimetrati per far presto, dichiarazioni di voto espresse senza entusiasmo votando a occhi bassi una "cosa" che sapeva di dente marcio e non invece di un infisso strutturale curabile e salvabile.
Personalmente ne ho viste tante nella mia esperienza di militante e osservatore politico, un tempo frequentatore assiduo di Transatlantico e del salone Garibaldi; mai però mi ero imbattuto in un governo privo di legittimazione popolare. Neppure i governi Pella e Tambro-ni sono richiamabili come precedenti presidenziali. C'è chi ha voluto in aula, a Palazzo Madama, ricordare la svolta di Salerno che, grazie a Togliatti, fissò il clamoroso compromesso fra comunisti appena usciti di clandestinità e una monarchia in declino. Ma non si dimentichi che, in verità, non fu il "Migliore" a dettare quella svolta epoca- : le, bensì personalmente Stalin: il leader sovietico aveva convenienza m uscire dalla minorità estrema fra le grandi potenze in lotta per la conquista del mondo e a trovare il proprio tornaconto in una alleanza con; gli inglesi - cui toccava in sorte l'influenza sull'area mediterranea - aij quali premeva salvare la monarchia sabauda, mentre gli americani erano, per cultura e scelta democratica, repubblicani e antitotalitari. Come si vede, il governo dei professori, col suo dichiarato «grandem lavoro da fare», ha cominciato con indebolire le basi stesse della democrazia repubblicana italiana. Questo va detto con franchezza e senso di responsabilità: anche se, tra i ministri, possiamo avere degli amici autorevoli e coscienziosi. Anzi, proprio per tale ragione, vogliamo sperare che siano proprio loro a rendersi conto che, lasciando correre come si trattasse di questioni minimali e marginali, ci allontaniamo anni luce dalla democrazia plurale di Alcide De Gasperi e dalla democrazia compiuta di Aldo Moro.
Ragioniamoci su. Non diamo ai giovani un'idea di democrazia priva di libertà, di politica e dei fondamenti stessi di uno stato democratico. L'ossequio ai tecnocrati di Bruxelles può trovare giustificazioni monetarie contingenti. Ma l'Europa che sognavamo era tutt'akro. Evitiamo di accrescere, irresponsabilmente, l'euroscetticismo: che non è un male oscuro e rischia di separarci da una fede sovranazionale di civiltà che, per decenni, era parsa impermeabile all'egoista mercati-smo dei grandi burocrati, maestri di econometrismo, non certo di economia politica europea anzitutto libera e democratica.
Giovanni Di Capua ( politico e scrittore)
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